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Castelli di Jesi Verdicchio DOCG – Riserva Classico “Tardivo Ma Non Tardo”

Castelli di Jesi Verdicchio DOCG – Riserva Classico “Tardivo Ma Non Tardo”

37.90

– Tipicità –

Ricco e lungo con sentori di frutta tropicale e delizioso finale leggermente amarognolo che invita alla beva.
Scopri in descrizione curiosità e cenni storici su questo importante vino DOC.

In stock

Descrizione

– Tipicità –

Un vino che si lega alla sua terra e all’arte marchigiana e, non a caso, l’etichetta è stata realizzata in esclusiva per l’Azienda Santa Barbara dalla pittrice e ristoratrice Catia Uliassi che in tutte le sue opere fa emergere una forte autonomia espressiva… proprio come nel nostro vino!
Il rapporto con Catia Uliassi è inoltre rafforzato dal legame che ci unisce alla Fondazione Dott. Dante Paladini onlus, un’organizzazione no-profit impegnata nel sostegno nella cura dei malati neuro-muscolari e nella ricerca clinica delle malattie da cui queste persone sono afflitte alla quale l’Azienda Santa Barbara devolve parte del ricavato di ogni bottiglia di Tardivo ma non Tardo.

Uve: Verdicchio
Tipologia Terreno: Argille verticali, esposizione Nord/Ovest su un’altitudine di 260 m slm
Sistema Allevamento: Cordone speronato
Vinificazione: La vinificazione avviene in serbatoi di acciaio. Segue affinamento su fecce fini.
Esame Visivo: Giallo intenso con riflessi dorati
Esame Olfattivo: Profumi intensi di frutta tropicale con variazioni speziate e vegetali
Esame Gustativo: Ricco e lungo con sentori di frutta tropicale e delizioso finale leggermente amarognolo che invita alla beva.

Abbinamenti gastronomici con il vino DOCG Castelli di Jesi Verdicchio Riserva: Antipasti, carni bianche più o meno elaborate, carni bollite, pietanze a base di funghi e tartufi, fritti di verdure, piatti di pesce, crostacei e molluschi.

Gradi: 13,5% vol.
Prodotto in Italia
Contiene solfiti


Storia e Letteratura del Vino DOCG Castelli di Jesi Verdicchio Riserva

Il legame storico tra la vite e l’ambiente geografico nel territorio della Marca Anconetana inizia con l’arrivo dei monaci benedettini ed a seguire con quelli camaldolesi che reintroducono e diffondono la vite ormai da secoli tradizionale. Ai monaci, quindi, nelle Marche si devono il tramandarsi delle tecniche viticolo-enologiche, il miglioramento del prodotto e, soprattutto, la conservabilità. Con il diffondersi del contratto di mezzadria che crea l’appoderamento diffuso e la disponibilità di forza lavoro, il vino cessa di essere bevanda dei soli ceti agiati e diviene alimento delle classi rurali. Già ai primi del 1500 lo spagnolo Herrera, professore a Salamanca, descrive le più comuni varietà di viti e la tecnica di vinificazione in bianco.

Fra i nomi dei vitigni descritti figura il Verdicchio così spiegato “uva bianca che ha il granello picciolo e traluce più che niuna altra. Queste viti sono migliori in luoghi alti e non umidi, che piani e in luoghi grassi, e riposati, perciocché ha la scorsa molto sottile e tenera, di che avviene che si marcisce molto presto, et ha il sarmento così tenero che da per sé per la maggior parte cade tutto e bisogna che al tempo della vendemmia si raccoglia tutta per terra, e per questa cagione ricerca luogo asciutto e non ventoso, molto alto nei colli. Il vino di questo vitame è migliore di niuno altro bianco. Si conserva per lungo tempo, è molto chiaro, odorifero e soave. Ma l’uva di esso per mangiare non vale molto”. E ancora, un significativo legame storico conseguente all’Unità d’Italia del 1861, è l’iniziativa relativa alla istituzione della Commissione Ampelografica Provinciale, promossa dal Prefetto e presieduta dall’enologo De Blasis, che nel 1871 pubblica i “Primi studi sulle viti della Provincia di Ancona”. Sono passate in rassegna le diverse realtà climatiche, geomorfologiche dei territori e si descrivono i vitigni coltivati elencandone caratteri e sinonimie. Per l’area mandamentale di Jesi viene descritto il Verdicchio (o Verdeccio).

Questo è anche il periodo dei parassiti: oidio (1851), peronospora (1879), fillossera (1890). Il tempo trascorso per trovare le soluzioni spinse i viticoltori ad eliminare molte varietà clonali presenti nel territorio, privilegiando vitigni sconosciuti nella storia enologica regionale meno il Verdicchio che risultava il vino più commercializzato. Ne è conferma storica ulteriore quanto scrive nel 1905-6 lo studioso Arzelio Felini in Studi Marchigiani “è oltre un ventennio che i nostri viticoltori, nel tentare di risolvere il problema enologico marchigiano, hanno abbandonato la moltiplicazione delle caratteristiche varietà dei vitigni nostrani per introdurre del nord e del sud” .

È negli anni ’60 che l’aiuto CEE permette di rinnovare tutta la viticoltura regionale passando dalla coltura promiscua (filari) alla coltura specializzata (vigneto) con impianti a controspalliera per meglio svolgere le cure colturali e produrre uve di qualità. Nella classifica effettuata dal Di Rovasenda (1881), il Verdicchio è dichiarato il vitigno italico più pregiato tra i vitigni a bacca bianca delle Marche.

Il vino Verdicchio acquisisce notorietà commerciale all’inizio degli anni ’50 quando due produttori investirono nella costruzione in uno dei “castelli” di una cantina di trasformazione per lavorare le proprie uve e caratterizzarono il prodotto con una bottiglia tipica: l’anfora etrusca (designer Maiocchi). Allo sviluppo commerciale ha provveduto un altro industriale farmaceutico che ha acquisito la cantina cui ha fatto seguito la valorizzazione con la denominazione d’origine che ha consentito l’attuale sviluppo della DOC.

Il periodo mezzadrile prevedeva la ripartizione delle uve tra proprietario e mezzadro e, di conseguenza, la vinificazione separata nelle rispettive abitazioni. Tecniche diverse e capacità differenti non permettevano di ottenere un prodotto di qualità. Questo arriva con il sostegno comunitario agli investimenti sui vigneti, sugli impianti di vinificazione e sulle strutture commerciali le quali, forti della denominazione, riescono a raggiungere un notevole sviluppo nel mercato interno e in quello internazionale. Un cenno va fatto anche all’attività vivaistica, poiché nel territorio operavano molti piccoli vivaisti con propri allevamenti di piante madri che hanno consentito di soddisfare la domanda in barbatelle innestate così che il rinnovo della viticoltura degli anni ’60 non subisse scompensi ed inquinamenti varietali. Poi il vivaismo ha assunto forme e valori di dimensione nazionale per cui la domanda è stata soddisfatta in disponibilità e sicurezza varietale.

Informazioni aggiuntive

Quantità ml

750 ml.

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